Accidenti a lei

Avevo una tale irrequietezza in quelle vene,  e quell’uomo non sapeva capirle e tenerle a bada, d’improvviso mi porgeva parole ora troppo molli,  ora troppo sanguinose, e  rimaneva stupito dei miei calci,  dei miei colpi di reni,  non capiva mai perché mi imbizzarrissi tanto.

Non poteva far nulla, se non starsene sdraiato sul divano,  a fissare il soffitto,  senza sofferenza,  solo un po’ di senso di inadeguatezza,  era così difficile da capire,  da sostenere, ma quant’era bella,  accidenti a lei!

 

Amelia De Simone

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Il dr. Kramer

Il dr. Kramer

Il dr. Kramer è il mio psicologo. Credo che abbia scelto questo mestiere perché ha mani troppo belle per imbruttirle facendo il muratore, ad esempio. Conosco a stento il suono della sua voce. Una voce profonda, calma, che sa di mare d’estate nel pomeriggio inoltrato, quando l’acqua è cristallina e calda e raccolta in sè. Mi porge la mano, caloroso, leggermente affettuoso, mi saluta e poi cominciamo la seduta. Mi siedo in poltrona (non esistono più i lettini, sono un’invenzione cinematografica!) e incomincio a raccontarmi. A volte ho cose interessanti da riportargli, vedo che lui prende appunti, sono una brava paziente. Altre volte invece devo inventarmi qualcosa, mi dispiace che lui non rimanga colpito, diamine non posso deluderlo così. Allora mi invento cose turpi, o grandi disagi emozionali. Riesco persino a piangere, con lacrimoni silenti, senza singhiozzare, non voglio metterlo a disagio e poi è tremendamente inelegante. Mi porge un fazzolettino, è partecipe, ma non parla. D’altronde che deve dirmi? “Continui, così prendo appunti”? Altre volte gli dico la verità, mi metto a nudo, ma mi pare una cosa sconveniente, io vado da lui solo perché parlare ad alta voce in strada mi procurerebbe qualche guaio. Vorrei che lui mi dicesse, proprio quando racconto la verità più vera: “Signora, perché inventa? Io son qui per aiutarla, perché non si fida di me?” E vorrei rispondergli” Perché non mi fido degli uomini, ho scelto lei e non una donna per continuare a non fidarmi degli uomini, il piacere masochista prolungato” Credo che il dr. Kramer abbia un lungo lavoro da fare con me. Ha appena comprato un taccuino nuovo, dedicato solo a me. Amelie, bugiarda impenitente.

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La modella medievalista

Senza titolo 1Ho appena aperto, la saracinesca ancora mezza chiusa e Dalila arriva.
É la figlia della mia migliore amica, una grande amica, vera, leale, intuitiva, intelligente, ma come mamma forse non é stata tra le migliori.
Dalila é una bellissima modella e ha la passione della fotografia in bianco e nero. Sfila per maisons indipendenti, non é sulle riviste patinate di mezzo mondo, ma sulle maggiori italiane spicca per quegli occhi orientali e la pelle scura, da principessa giordana, il collo da cigno e il sorriso timido.

É divertente, ha un senso dello humor tutto suo, parla velocissimo, spesso devo farle ripetere le cose, ed é una testa brillante: laureata in storia, sta concludendo un progetto che la rende tra le medievaliste più accreditate.
Però provate a chiederle l’ora, guarderà l’orologio, le inintelligibili lancette e darà una risposta poco sicura e approssimativa. L’adoro. É la figlia che avrei voluto, se solo avessi avuto la testa di farne o almeno un compagno che ne valesse la pena, ma mica vogliamo parlare di me

Arriva trafelata, ha appena avuto una discussione con sua mamma ed é arrabbiata, ma non sa sfogarsi a parole. Io lo so perché la leggo come un libro aperto. Non le dico nulla, le do un bacio lieve sulla guancia, so che il contatto fisico deve cercarlo lei, altrimenti si infastidisce.

Mi siedo con lei al bancone e apro il vaso delle meringhe. Non esiste un dispiacere di Dalila che non si dissolva davanti a una meringa . All’inizio non ne prende, troppo turbata, poi una mano scivola nel vaso e ne mangia una. Alla terza mi sta raccontando del motivo della discussione. Cerco di rasserenarla e di minimizzare questo suo piccolo dramma. Mi mette un braccio sotto il mio, mi stringe con una mano, e mi dice che mi vuol bene. Mica a parole. Con quei bellissimi occhi orientali.

Liberamente ispirato a mia figlia Dalila

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Amina

Liberamente ispirato a una cliente incrociata a Il Camaleonte Piola.

Oggi é un giorno di festa, ma lo sapete io non chiudo mai la torteria, tranne al mercoledì e giusto 15 giorni all’anno per andare….ve lo dirò poi dove vado ogni anno, sempre lo stesso luogo, che é un posto che racchiude tutti i luoghi del mondo, ma ci vorrebbe un intero libro per raccontarvelo, e poi forse avrete imparato a capirmi, non racconto molte cose di me, dovete aver pazienza ed attendere che mi schiuda, come un uovo.
Ho avuto molto clienti, nessuno era frettoloso, d’altronde é scritto all’ingresso: Gentile cliente insieme a torte e bevande calde ti farò dono d’un pezzo importante della tua vita, il tuo tempo. Godilo insieme alle dolcezze della torteria. Sii premuroso verso me e verso te stesso, e prendi una fetta di serenità.
Li osservo con nonchalance mentre leggono, prima un po’ stupefatti, poi piacevolmente convinti dal tono pacifico del cartello, poi quando incrociano lo sguardo e ascoltano la mia voce morbida, suadente, si convincono di essere capitati nel posto giusto e si siedono senza fretta.

Oggi é lunedì e tutti i lunedì arriva Amina. É una ragazza marocchina bellissima, i capelli neri, ricci, che si arrampicano verso l’alto, divisi al centro in due ciocche ribelli, alta, longilinea, gli occhi così grandi che ci abiti al primo sguardo, il carbone delle pupille accentuato dal kajal, le fosse sulle guance, un sorriso che magnetizza gli sguardi.
Amina é incontenibile, appena entra mi salta al collo, mi riempie di baci e ruba un biscotto dai contenitori, dà un morso, poi me lo porge perché anch’io ne prenda un po’, poi mi slega il grembiule, e incomincia a parlare. Quanto parla Amina! Parla e ride e poi mi abbraccia e poi ancora mi bacia le guance, e mi dice: tu sei la mia mamma vera! Mi saltella intorno, io fingo fastidio, intanto controllo che della sua torta preferita ce ne sia ancora in abbondanza, ne spolvera due fettone gigantesche, ha gli occhi felici, é la voglia di vivere in persona, la sua allegria mi contagia, mi fa bene al cuore.
É ora di tornare a casa, mi dice: Mamy, a lunedì, mi stampa un bacio sulla fronte e scappa via, una folata di belle cose la segue e un’altra resta con me.

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La ragazza dai capelli rossi

La ragazza dai capelli rossi

Stasera sono distrutta. È stata una giornata molto faticosa. Ho avuto una commessa di cento cannelé e cento tortini al cioccolato, e ho avuto un po’ di via vai ai tavoli. La mia cliente preferita di oggi è stata una ragazza dai capelli lunghi e rossi. Non conosco il suo nome, è venuta varie volte in torteria, attendo di entrare in confidenza per chiederglielo.

Bellissimi occhi enormi e tondi, la pelle eterea, da bambola di porcellana, bocca al succo di ciliegia, alta e forse questa altezza le ha provocato quella timidezza infinita che la fa arrivare in torteria sola, restare le ore a tu per tu con una fetta di torta, la sua moleskine, a scrivere scrivere scrivere. Prende sempre la stessa torta cioccolato e pere, non è curiosa di altri gusti, e sempre la stessa tisana ai frutti di bosco. Si guarda intorno di sottecchi, ma non cerca mai la complicità negli sguardi degli altri avventori, preferisce rimanere nella sua nicchia. La guardo da lontano, le rivolgo un sorriso benevolo, anche quando non mi guarda, le persone hanno bisogno di affetto anche e soprattutto quando non lo sanno, e lei ne ha un profondo bisogno.

Oggi insieme alla torta le ho portato un segnalibro con una poesia di un’autrice profonda ma sconosciuta al pubblico, Amelìe, si somigliano le due, si indovinerebbe un legame di sangue. Ma quante illazioni faccio, più dei granelli di zucchero che uso tutti i giorni. Sono una pasticcera pasticciona, che si fa troppo gli affari degli altri, anzi forse più che pasticcera, dovrei dire che sono un’indagatrice dell’anima, che scava nella mente e nel cuore delle persone, mentre sforna bignè, tortine e pastine da tè.

La ragazza legge la poesia, le si fanno gli occhi lucidi, è una poesia d’amore, chi sa qual è la sua sofferenza nel cuore. Si alza, infila un cappottino sottile, una sciarpona glicine e un basco blu elettrico. É deliziosa, splendida, senza consapevolezza, la grazia delle anime lucenti. Scarabocchia un grazie su un tovagliolo, paga senza guardarmi in viso, ma so che le ho dato un po’ di calore in petto. Arrivederci a presto

Liberamente ispirato a mia nipote Federica Rapacciuolo.

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AAA cercasi editore per Elisabetta

Oggi in torteria abbiamo avuto un bellissimo evento: un corso di cucina tenuto da una mia carissima amica e grande fodblogger: Elisabetta Cuomo Elisabetta ha preparato e ci ha insegnato il babà napoletano. Lei vive in un posto splendido, Vico Equense, gioiellino attaccato a Sorrento; è una donna dai mille talenti, bella e generosa, con un’affettività molto accogliente, sa molto di sé ma non lo espone in vetrina, le sue tante qualità sono conservate in una madia, insieme alle farine, all’agar agar, ai cioccolati più preziosi, ai cannelli per le cartucce, ai quaderni su cui appunta tutte le sue sperimentazioni

Tra i discenti del corso c’è un uomo attraente, leggermente morbido sui fianchi, i capelli folti e brizzolati, che pare ammagato dal fare di Elisabetta, la segue passo, le fa mille scatti mentre lei impasta sapientemente il babà, crea il velo, spiega alla classe il significato di incordare, le differenze tra le farine, tra i burri, i lieviti etc. Fulvio, questo il nome dell’uomo, le fa mille domande che tradiscono una conoscenza approfondita della materia, catturando così l’attenzione di Elisabetta, attratta dal binomio bellezza e sapienza.

Tra una domanda e l’altra viene fuori che Fulvio è un giornalista enogastronomico, particolarmente interessato all’arte di Elisabetta e le propone di scrivere a quattro mani un libro di tutte le sue ricette. Lei tentenna, ma io pretendo che accetti, i talenti vanno messi a frutto. Naturalmente la prima copia sarà mia, con tanto di autografo.

Intanto sbirciate qui:

Untitled 1

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In torteria

Stamattina in torteria entrano due tipi, un uomo e una donna. Lei una donna molto bella, non giovanissima più vicina probabilmente ai 50 che ai 40, vestita molto accuratamente, occhi grandi, molto truccati, un po’ da bambola, un po’ da diva, si vede che oltre alla sua bellezza fisica ha bisogno di esibire qualcos’altro, ha un mondo che le esplode dentro. Lui è timido, non particolarmente bello, vestito in maniera molto approssimativa, senza particolare cura, si ha l’impressione che si accontenti di vestiti puliti, un sorriso particolare, incisivi da bambino, grandi, larghi, gli occhi enormi, una cava di malinconia quieta.

Sì siedono uno di fronte all’altra. Lei è visibilmente innamorata di lui. Ha gesti ed eloquio asciutto, senza mielosità, eppure gli occhi sono così colmi, parlano. Lui è gentile, senza essere affettato, forse è lontano da lei, ma ama i suoi modi, la guarda ammirato, si comprende che non capisca perché lei lo trovi interessante, ma si gode il momento. Si parlano a tono basso, senza concitazione, ma attenti a quel che dice l’altro, forse sono già amanti, forse lo diventeranno oggi.

Vorrei sedermi con loro, fare domande, chiarire i loro sospesi, invitarli ad amarsi, visto che è l’unico modo per combattere l’amaro della vita. Taglio una fetta generosa della mia torta segreta, quella che fa innamorare per sempre, e gliela porgo – offre la casa, un sorriso sornione ma non invadente, così dico – una cioccolata calda all’arancia, poi mi eclisso, non sta bene spiare le persone. Però che darei per ascoltare i loro discorsi

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La pupara

La pupara

Da giovane facevo la pupara. Sapete cos’è, vero? E’ un’arte che ho imparato da mio padre Nino. Mio padre era il più bello degli uomini. Ma bello assai, non perché parlo da figlia. Le femmine che passavano davanti al nostro banchetto ci lasciavano sempre un po’ di occhi e di cuore. Tutte in tiro, il loro vestito migliore, si tiravano un po’ il bordo del vestito perché la scollatura andasse giù e catturasse l’occhio di mio padre. Ma quello, che discendeva direttamente dagli dei normanni, biondo, alto e con le gemme di mare, non aveva occhi che per mia mamma, Amalia.

E se mio padre era bello, mia madre era una madonna. Una madonna nera, con quella pelle scura, da vera siciliana, quei capelli neri e ricci, una perla del mediterraneo, poteva essere pure marocchina tanto la pelle era cotta di sole. Mio padre era un uomo dalle vedute larghe, non l’assillava con la gelosia, come gli altri uomini siculi, troppo la venerava e sapeva nel cuore della sua fedeltà. Seguiva con lo sguardo i suoi fianchi sinuosi che allargavano l’aria e strappavano gli altri uomini alle loro faccende. Più d’uno, forse mille, avrebbe fatto pazzie per lei, ma tutti rispettavano Nino, uomo d’un pezzo, poche parole, ma autorevole. La gente capisce sempre chi è il capobranco e sta a cuccia. Io assomigliavo assai ad Amalia, ma ero pallida, e poi ero così gracile, i seni inesistenti, mentre lei era prorompente, la scena era tutta sua quando appariva, aveva il busto delle ancelle e la grazia delle muse, io le ero devota come a una madonna veramente, e pure quando mi prendevo uno scappellotto non mi ribellavo, tanto poi lei arrivava dopo due minuti, mi arruffava i capelli e mi soffiava in faccia, mi faceva ridere e diventavamo di nuovo amiche.

A mia madre piaceva cantare. Cantava sempre mentre mio padre costruiva i pupi. E cantava quando mio padre mi insegnava a costruirli. La sua voce era un po’ roca, una voce che dà languore agli uomini. Nino fingeva di fissare i ferri del mestiere, ma era tutto languido alla voce che gli aveva rubato il cuore, e pieno d’orgoglio che tutta questa prosperità fosse per lui e lui soltanto

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Ho vinto

Ho vinto il premio Grinzane Cavour. Devo andare a ritirarlo, sono emozionatissima, sono circa 3 ore che mi vesto e mi spoglio, mi rivesto e cambio ancora mise. Non voglio apparire troppo severa o seriosa né un’intellettuale che finge d’essere una diva del cinema. In effetti quel vestito blu lungo è ridicolo per ritirare un premio letterario, perché l’ho comprato? Forse perché ho pensato che facesse risaltare i miei occhi azzurrissimi, la mia pelle chiara, i capelli biondi, quasi da svedese.

Quando mi sveglio, senza trucco, mi guardo allo specchio, penso sempre alla stessa cosa: sono senza faccia*, così chiara, senza contorni definiti, si fatica a darmi un profilo. La prima cosa che faccio, dopo la pipì e una rinfrescata con semplice acqua al viso, è darmi del mascara a quelle ciglia lunghissime, così bionde e così invisibili, paiono la metafora della mia vita, bellezze interiori così profonde e così trasparenti, se non le imbelletto nessuno se ne accorge, rimango senza volto, senza voce. Per questo ho preso a scrivere, è il mio belletto, è l’unica cosa che mi rende l’ombelico del mondo, altrimenti resto nascosta, pigiata nelle mie convinzioni negative, nei miei umori così altalenanti, che sfiorano quasi la nevrosi.

Qualcosa di buono devo scriverlo se ho vinto un premio così prestigioso. Mi devo preparare, è tardi. Metterò un tailleur nero, perle e un filo di rossetto. Avrò una faccia fin quando non mi struccherò dopo il ritiro del premio. Il mio momento di gloria. Amelia De Simone.

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Lo scrittore

Stasera non voglio partorire nessun personaggio, sarò io il personaggio che si inventa il proprio scrittore. Io il mio papà lo voglio arguto, uno sensibile ma un po’ stronzetto, mi danno fastidio i maschi melensi, ecco. Oppure potrebbe essere una mamma. Ma no, dai, voglio uno scrittore. Allora, dicevamo, quest’uomo qui, che poi è il mio personaggio (posso partorire, io personaggio, un personaggio padre? Boh!) deve avere la pelle attenta ma gli occhi e le parole asciutte, deve essere ironico, stemperare le emozioni, sia positive che negative, con battute, deve suscitare ilarità, ma contenuta e breve. E poi deve essere appena allusivo con i sentimenti e le scene erotiche, mica dobbiamo sempre parlare e pensare all’amore e al sesso.

Ci sono millemila argomenti a questo mondo e poi questi scrittori sempre lì finiscono, noiosi barbosi ripetitivi triti. Però qualche bella scena forte non mi dispiace, eh! 😉 Me lo immagino alto 1.80, quelli bassi no, anche io ho i miei razzismi, né troppo alto, mi pare improbabile uno scrittore altissimo, coi capelli lunghi sul collo, appena brizzolato, me lo voglio costruire affascinante, mica si paga in più, fisico asciutto ma non muscoloso, sarebbe di nuovo improbabile altrimenti, occhi verdi come i miei, verde scuro, le ciglia fitte fitte, lunghe, da femmina, e una bocca carnosa, il naso greco, un po’ taciturno ma non orso. Questo scrittore è capace ad ascoltare oltre le parole, le persone gli raccontano pezzi di vita e lui mentalmente aggiunge o toglie a seconda della verità che avverte dagli occhi, dai gesti delle mani, da come reclinano il collo o si toccano i capelli o il naso. Parrebbe intelligente, almeno così sembra. Lo vorrei sincero, senza paura di dire quel che pensa e di usare parole anche scurrili, irrispettose, se serve a rendere la sua storia, i suoi pensieri. E poi lo vorrei al tavolino a scrivere già di me, ho voglia di capire che racconto mi cuce addosso.

Ora gli accendo la lampada e incomincio a farlo ticchettare sula tastiera del pc, non ho ancora deciso se può fumare o no, ma uno scrittore che non fumi pare un po’ scialbo. Fuma, va.

Amelia De Simone – novembre 2014.

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